In Honduras, i rappresentanti del governo provvisorio del golpista Robert Micheletti e del deposto presidente Manuel Zelaya hanno firmato nella notte di giovedì (venerdì mattina in Italia) un accordo che pone fine alla crisi politica nel paese centroamericano e permette il ritorno di Zelaya alla presidenza della nazione, previa approvazione da parte del Congresso nazionale.

“È un trionfo per la democrazia dell’Honduras” ha dichiarato Manuel Zelaya. Gli fa eco Robert Micheletti “Ho autorizzato la mia squadra di negoziatori a firmare un accordo che segna l’inizio della fine di questa situazione politica per il paese”.
Il negoziatore statunitense Thomas Shannon puntualizza: “Gli Stati Uniti accompagneranno l’Honduras fino alle elezioni del 29 novembre” (con i tempi che corrono e con le esperienze irakene e afghane, non riesco a capire se è una minaccia o un bene per l’Honduras).
Il segretario di stato americano Hillary Clinton ha salutato con favore la firma dell’accordo e ha detto ai giornalisti che “Chiaramente eravamo per il ripristino dell’ordine costituzionale, che include le elezioni”.
Sono soddisfatto per la conclusione di questa assurda situazione che si è creata nel piccolo paese centroamericano (che, fra l’altro, conosco bene per i tanti viaggi fatti e che amo molto), ma una domanda amara mi muore in gola: ora quali sono le nuove prospettive riservate al popolo honduregno? Popolo che, in questi quattro mesi, ha sofferto sulla propria pelle gli effetti inenarrabili del golpe di Micheletti e della sua ciurma. Scrive Gennaro Carotenuto su “Giornalismo partecipativo”: “Finisce così apparentemente a tarallucci e vino un colpo di stato durato quattro mesi. Un colpo di stato che solo nelle grandi città (nessuno sa cosa è successo davvero nell'interno) ha causato almeno 24 morti ammazzati, centinaia di persone ferite da colpi di arma da fuoco o percossi selvaggiamente, almeno 3000 detenzioni illegali, centinaia di torturati e alcune decine di persone le sorti delle quali sono tuttora sconosciute”.
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