“Mi rimarranno due cose come ricordo di questi giorni: l’odio di pochi e l’amore di tanti, tantissimi, italiani. Agli uni e agli altri faccio la stessa promessa: andremo avanti con più forza e più determinazione di prima sulla strada della libertà”.
“Lo dobbiamo al nostro popolo, lo dobbiamo alla nostra democrazia, nella quale non prevarranno né la violenza delle pietre, né quella peggiore delle parole. In questi giorni ho sentito vicini anche alcuni leader politici dell’opposizione. Se da quello che è successo deriverà una maggiore consapevolezza della necessità di un linguaggio più pacato e più onesto nella politica italiana, allora questo dolore non sarà stato inutile. Alcuni esponenti dell`opposizione sembrano averlo capito: se sapranno davvero prendere le distanze in modo onesto dai pochi fomentatori di violenza, allora potrà finalmente aprirsi una nuova stagione di dialogo. In ogni caso, noi andremo avanti sulla strada delle riforme che gli italiani ci chiedono”.
Chi parla non è il mahatma Gandhi, nemmeno il reverendo Martin Luther King, nemmeno il santo padre Pio da Pietralcina, nemmeno il papa buono Giovanni XXIII e, sia chiaro, nemmeno Dio.
Chi parla è Silvio Berlusconi dopo essere stato dimesso dall’ospedale S. Raffaele di Milano.
Non che quello che dice di per sé sia errato, ci mancherebbe, la cosa errata è che è rivolta a “fomentatori di violenza” anziché a se stesso. Quando ho sentito e letto queste dichiarazioni, prima di arrivare alla fine dell’accorato pronunciamento berlusconiano, ho pensato che vuoi il clima natalizio vuoi il trauma (non solo fisico) di quanto avvenuto avessero, finalmente, riportato un po’ di pace in questa politicamente martoriata nazione. Mi sono sbagliato.
A fronte delle parole tutte amore di Berlusconi (immaginate una schiera di puttini – piccoli putti – con le ali e un coro di angeli) è iniziata la fase due, è iniziato un fuoco di fila dei suoi fedeli allo scopo di individuare i presunti fomentatori di violenza, i mandanti morali senza, invece, guardare a casa propria. Una vera e propria caccia alle streghe. Un maccartismo della peggior specie.
La parte del cattivo, la funzione del sicario la assume il presidente dei deputati PDL Fabrizio Cicchitto che, anziché gettare acqua sul fuoco e fare proprie le parole del suo capo, compila, sempre d'accordo con il suo capo, una vera e propria lista di proscrizione e vi include Antonio Di Pietro leader di “Italia dei Valori”, Michele Santoro e la sua trasmissione “Anno Zero”, tutta la redazione – per non sbagliare – de “La Repubblica”, Marco Travaglio e il suo giornale “Il Fatto”; sfiora anche la presidente del “Partito Democratico” la passionaria Rosy Bindi per la seconda parte della sua dichiarazione sull’aggressione subita dal presidente del consiglio. Il vero capo d’imputazione: opposizione, dissenso sulla politica governativa; posizioni che in un paese democratico sarebbero normali, anzi, essenziali.
Una vera e propria, questa sì, condanna a morte, certamente morale se non si superano i confini della correttezza civile ma, purtroppo, se l’andazzo è questo, se i termini per ora verbali di Cicchitto rimangono così aspri, mi assale qualche dubbio sul limite “morale” di questo falso e assurdo “dagli all’untore”.
Signor presidente, quanto lei ha detto può essere condiviso se è rivolto principalmente a se stesso anziché ai suoi oppositori, i quali, poveri, esercitano, spesso male, solamente un diritto/dovere democratico.
Nessuno vuole la sua morte né tantomeno la guerra civile se non chi la sta evocando a gran voce nelle piazze o nei consessi internazionali, sui propri giornali, amplificata dalle proprie televisioni: si legga, per favore, i titoli in prima pagina di questa settimana di “Libero” e de “Il Giornale” o si ascolti il suo fido amico Emilio Fede e mi dica chi è che cerca la rissa, chi è il guerrafondaio!
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venerdì 18 dicembre 2009
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