domenica 11 luglio 2010

CARDINAL BERTONE: UN INVITO A CENA CON DELITTO

Un invito a cena con delitto. Un vecchio film dell’altro secolo, il 1976, diretto dal regista Robert Moore, da non confondersi con l’attore Roger e nemmeno con la magnifica e mitica Demi Moore. È il titolo appropriato per una cena che si è consumata nei giorni scorsi a casa nientemeno che dell’anchorman nostrano Bruno Vespa, il giornalista più cortigiano addirittura dell’inqualificabile Augusto Minzolini e padrone di casa a Porta a Porta, il più deprimente polpettone televisivo di tutte le televisioni del globo e anche del sistema solare.
L’occasione è stata il festeggiamento dei 50 anni di giornalismo del Brunone nazionale (vi rendete conto da quanto tempo lo sopportiamo in silenzio?) e qui le mie dita, scollegate dai freni inibitori ma saldamente collegate al pensiero più inconfessato ma vero, battono sui tasti del portatile una frase sentita in uno dei miei viaggi siciliani (la scrivo come l’ho sentita pronunciare, i siciliani mi perdonino): “cinquant’anni pirsi, l’avussutu dato a un carzarato a chist’ura saribbi nisciutu” che tradotto vuol dire che sono cinquanta anni persi, sarebbe stato più utile darli a un carcerato che così avrebbe potuto riavere la sua libertà. Com’è vero!
Ritorniamo a noi.
Gli invitati, ci dice la stampa ben informata, non sono, ovviamente, personaggi qualsiasi e nemmeno personalità importanti ma il top dei top della politica, della finanza e del clero, mancava solo dio in persona e di questo Vespa, conoscendolo, si sarà rammaricato.
Non ci credete? Eccovi serviti. Iniziamo con il plurinquisito presidente del Consiglio Silvio Berlusconi accompagnato dal consorte (cosa avete capito! nel senso di con-sorte, che dividono la stessa sorte) viceministro e gentiluomo del Papa Gianni Letta, seguono l’ondeggiante e pluriconiugato Pierferdinando Casini detto il-piede-in-due-staffe, la rampante consigliera di Mediobanca Marina Berlusconi (talis pater talis filia), il boiardo di stato e governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e il chiacchieratissimo uomo per tutte le stagioni Cesare Geronzi. Ho lasciato per ultimo un convitato a mio giudizio un poco anomalo (qui si vede probabilmente la mia ingenuità): il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato Vaticano e Camerlengo di Santa Romana Chiesa, non un prelato qualunque ma la prima autorità ecclesiastica dopo il Papa.
Vi trascrivo, solo per cronaca poiché non fa parte del mio linguaggio, il commento della mia ottuagenaria zia (acquisita, per fortuna) quando è stata data notizia al telegiornale (non quello di Minzolini poiché il mio parentado lo rifugge, giustamente, come se fosse la peste bubbonica): “che cazzo ci è andato a fare questo prete in mezzo a tanti manigoldi”. A parte il linguaggio da birocciaio, che non si confà a una signora in età avanzata e, ve lo giuro, di dolce indole, tutta casa e chiesa, il ragionamento fila, ha una sua logica. Perché uno dei massimi rappresentanti della chiesa partecipa a tali e tutt’altro che ingenui banchetti? Cosa ha a che spartire la chiesa con la politica neo-fascista berlusconiana, con la massoneria che si pensa apprezzata da non pochi commensali presenti, con le banche e gli affari sottobanco? Non è bastata alla chiesa e alla sua curia il coinvolgimento in affari sporchi del Cardinale Crescenzio Sepe?
Forse la presenza del Cardinale è stata voluta per l’intonazione della preghiera d’inizio cena: “Signore, benedici noi e questo cibo che stiamo per prendere. Insegnaci a dividerlo con i più poveri” e la cosa s’intonerebbe perfettamente con la manovra finanziaria in cantiere che invece, com’è noto, ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Se l’invito a cena è chiaro, dov’è il delitto? Il delitto è l’uccisione delle coscienze di tanti cristiani, di tanti cristi, scandalizzati da uomini in porpora che amano più il potere che la propria e l’altrui coscienza. “Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!»”.





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martedì 6 luglio 2010

IL PRESIDENZIALE “GHE PENSI MI” FRAINTESO

Sarò prevenuto e il mio disgusto viscerale nei confronti del ducetto di Arcore forse mi annebbia la ragione ma l’attuale congiuntura politica in cui versa il nostro paese non mi convince e non mi commuove anzi mi irrita e mi spinge a pensieri e azioni non pacate.
Ciò che appare, che vogliono fare apparire, è che il “partito dell’amore” fa acqua da tutte le parti. Ipotesi troppo semplicistica; infatti, noi continuiamo a considerare il PDL un partito “tradizionale”, con una dialettica e una democrazia interna, mentre non lo è: sembra piuttosto essere, e così si comporta, una banda ciecamente asservita al suo capo assoluto, una proprietà privata del plurinquisito Silvio Berlusconi dove la democrazia non sta di casa.
Ci vogliono fare credere che il minacciato redde rationem del capo del Governo, “ghe pensi mi”, sia rivolto all’interno dello schieramento che lo sostiene e lo serve e noi, allocchi, rischiamo di crederci con il conseguente nostro stare alla finestra in attesa degli eventi (non sembrerebbe avere altra motivazione l’immobilismo colpevole dei partiti dell’opposizione, PD in testa) che, nella fantasia di alcuni, dovrebbero sfaldare il partito berlusconiano.
Stiamo facendo, in qualche modo e nostro malgrado, il gioco dell’astuto imbonitore che ci governa da tanti, troppi anni.
Certamente qualche voce fuori dal coro c’è nel partito presidenziale ma credere che il cavaliere si faccia impressionare è veramente troppo ingenuo: fate mente locale, avete forse registrato un dissenso nell’espressione del voto su leggi e leggine da parte della cosiddetta “fronda” finiana? Molte parole e pochi fatti.
Ciò che sta accadendo si situa perfettamente nella logica del padre-padrone che ha ben chiaro l’obiettivo da raggiungere in dispregio di uomini e cose non avendo, per lui, alcun significato le parole dignità, onestà, moralità, legalità e, ancora, coscienza, rimorso, senso dello stato, democrazia.
Aldo Brancher, l’inetto e indagato ministro del nulla, gli è servito per creare una cortina fumogena attorno a una manovra economica salva-potenti (la Confindustria dell’Emma Marcegaglia, sono giorni che brinda a champagne e pasteggia a caviale): lui l’ha creato e lui l’ha costretto alla cuccia. Come nei saldi: si aumenta ad arte il prezzo di listino e, quindi, si pratica lo sconto che sembra enorme mentre è, in realtà, insignificante. Conseguenze? La prima: l’incontro Governo-Regioni per la correzione della manovra non ci sarà (vedremo la reazione dell’arraffone-ciellino governatore della Lombardia Roberto Formigoni), come ci dice il ministro, pure lui inquisito, Raffaele Fitto. La seconda: il Governo porrà la fiducia sulla manovra economica, con buona pace di Pierluigi Bersani e Antonio di Pietro e qualche mal di pancia, ma solo di facciata, di Gianfranco Fini.
Il “ghe pensi mi” berlusconiano si rivolge quindi agli italiani e alle opposizioni esterne (e non alle “minoranze” interne) e non nasce dall’improvviso cambiamento di umore del cavaliere ma è progettato nei minimi particolari; non si spiegherebbe altrimenti l’attacco frontale dell’onorevole-avvocato (finora sempre perdente) Nicolò Ghedini al troppo mansueto Giorgio Napolitano o l’affondo demenziale del ministro dalla voce sottile Giulio Tremonti nei confronti delle Regioni del sud accusate di cialtroneria (da che pulpito viene la predica) o la posizione dell’altro ministro, Maurizio Sacconi, che accusa la FIOM-CGIL e i partiti dell’opposizione di “gufare” contro il piano industriale dell’americanissimo amministratore FIAT Sergio Marchionne (in questo modo abbiamo a chi dare la colpa di un eventuale disimpegno della Fiat in Italia).
L’unica nota ilare (da sbellicarsi dalle risa) è stata l’incontro, con annessi i preventivati battibecchi, che ha visto protagonisti il serioso presidente della Camera e il tenero ministro alla cultura Sandro Bondi: sarà un poeta, un rimatore di corte, ahinoi, ma resta un giullare.
Ciò che sta preparando il presidente del Consiglio non è, quindi, una exit strategy (come potrebbe, se esce dalla politica entra in galera!) bensì una più dura e più scoperta ed evidente occupazione del paese: la traduzione dal milanese all’italiano del “ghe pensi mi” è “schiavi, qui comando io”.
Dobbiamo affrancarci da questo indemoniato dittatorello di provincia dalle amicizie pericolose: il colonnello Muammar Gheddafi e l’ex KGB Vladimir Putin.





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