Vi ricordate di Muntazer al-Zaidi, il reporter iracheno diventato famoso per aver lanciato entrambe le scarpe al presidente, allora, degli Stati Uniti George W.Bush durante la conferenza stampa che questi stava tenendo congiuntamente al primo ministro iracheno Nuri al-Malichi a Bagdad il 14 dicembre 2008?
Il nostro reporter, il 12 marzo 2009, è stato condannato dal tribunale di Bagdad, per villipendio a un capo di stato straniero, alla pena di 3 anni di carcere; pena poi ridotta per buona condotta.
Il 15 settembre 2009 il giornalista è stato rilasciato, festeggiato in patria e all'estero da numerosi suoi sostenitori.
Eccovi la dichiarazione che ha rilasciato dopo la sua liberazione: che condivido.
Perchè ho lanciato quella scarpa di Muntazer al-Zaidi
20 settembre 2009
Sono libero. Ma il mio paese è ancora "prigioniero di guerra". Si è parlato molto dell’azione e della persona che l’ha commessa, dell’eroe e dell’atto eroico, del simbolo e dell’atto simbolico da lui compiuto. Ma io rispondo semplicemente: ciò che mi ha spinto ad agire è l’ingiustizia che ha colpito la mia gente, e il modo in cui l’occupazione ha voluto umiliare la mia madrepatria schiacciandola sotto il proprio stivale.
Negli ultimi anni, più di un milione di persone innocenti sono cadute sotto i proiettili dell’occupazione, e l’Iraq è ora riempito da più di cinque milioni di orfani, un milione di vedove e centinaia di migliaia di mutilati. Molti milioni di persone sono senza tetto, all’interno del paese o all’estero.
Eravamo un paese in cui l’arabo divideva il suo pane quotidiano con il turkmeno, il curdo, l’assiro, il sabeo, e lo yazide. E lo sciita pregava accanto al sunnita. Ed il musulmano celebrava con il cristiano la nascita di Cristo. Tutto questo, sebbene avessimo condiviso la fame e le sanzioni per più di un decennio.
La nostra pazienza e la nostra solidarietà non ci hanno fatto dimenticare l’oppressione. Ma l’invasione ha diviso il fratello dal fratello, il vicino dal vicino. Ha trasformato le nostre case in tende per i funerali.
Non sono un eroe. Ma ho il mio punto di vista. Ho la mia posizione. Mi ha umiliato personalmente vedere il mio paese umiliato; e vedere la mia Baghdad incendiata, la mia gente uccisa. Migliaia di tragiche immagini sono rimaste scolpite nella mia mente, spingendomi sul cammino dello scontro. Lo scandalo di Abu Ghraib. Il massacro di Falluja, Najaf, Haditha, Sadr City, Basra, Diyala, Mosul, Tal Afar, ed ogni centimetro della nostra terra ferita. Ho viaggiato attraverso la mia terra in fiamme e visto con i miei stessi occhi il dolore delle vittime, ho udito con le mie stesse orecchie le urla degli orfani e dei familiari dei defunti, ed un sentimento di vergogna mi tormentava come un’ossessione, perché ero impotente.
Una volta portato a termine il mio dovere professionale di riferire le tragedie quotidiane, mentre mi scrollavo di dosso i resti delle macerie delle case irachene distrutte, o lavavo il sangue che macchiava i miei vestiti, serravo i denti e facevo un giuramento alle nostre vittime, un giuramento di vendetta.
L’occasione è arrivata, ed io l’ho colta.
L’ho colta per un sentimento di lealtà nei confronti di ogni goccia di sangue innocente versato dall’occupazione, dell’urlo di dolore di ogni madre in lutto, del lamento di ogni bambino, del dolore di ogni vittima di violenza, delle lacrime di ogni orfano.
Dico a coloro che mi rimproverano: sapete in quante case distrutte è entrata quella scarpa che ho lanciato? Quante volte ha calpestato il sangue di vittime innocenti? Forse quella scarpa era la risposta appropriata, una volta che tutti i valori erano stati violati.
Quando ho tirato la scarpa in faccia a quel criminale, George Bush, volevo esprimere il mio rifiuto delle sue menzogne, della sua occupazione del mio paese, il mio rifiuto del fatto che lui uccideva la mia gente. Il mio rifiuto del suo saccheggio delle ricchezze del mio paese, e della distruzione delle sue infrastrutture. Il mio rifiuto del fatto che i figli dell’Iraq venivano dispersi in una diaspora.
Se ho fatto del male al giornalismo senza intenzione, a causa dell’imbarazzo professionale che ho causato alla categoria, chiedo scusa. Tutto ciò che volevo fare era esprimere in tutta coscienza i sentimenti di un cittadino che vede la sua terra dissacrata ogni giorno. La professionalità rimpianta da alcuni, all’ombra dell’occupazione, non dovrebbe avere una voce più forte di quella del patriottismo. E se il patriottismo ha bisogno di parlare apertamente, allora la professionalità dovrebbe esserne l’alleato.
Non l’ho fatto perché il mio nome entrasse nella storia, o per benefici materiali. Tutto ciò che volevo fare era difendere il mio paese.
Originale.
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